Che Giorgio La Pira provenisse dal Sud dell’Italia e avesse radici e carattere mediterranei era tratto piuttosto evidente. In un discorso tenuto nel 1987, in occasione del decimo anniversario della morte, il suo amico Giuseppe Dossetti ricordava come tutto in La Pira “richiamava il tipo mediterraneo, se mai con marcati segni di provenienza dall’altra sponda: la statura piccola, il corpo flessuoso e sempre un po’ come sospeso, il colore della pelle, le grosse labbra, gli occhi scintillanti, penetrantissimi, che trapassano l’interlocutore, e l’indescrivibile espressività mimica delle sue mani e del suo volto, che oltrepassavano sempre la parola e risolvevano tutto là dove la parola e il concetto restavano impotenti”. A questa mediterraneità, continuava Dossetti, La Pira è sempre rimasto fedele e non ha mai permesso venisse assorbita, neppure culturalmente, dal settentrione.
Nella commemorazione tenutasi il 5 novembre 2022 a Pozzallo, suo paese natale in provincia di Ragusa, nel quarantacinquesimo anniversario della morte, autorità civili e religiose hanno sottolineato come sia giunto il tempo di riappropriarsi come terra d’origine e di rivendicare la figura mediterranea di La Pira, schiacciata da una vita passata a Firenze, da un impegno a tutto campo a livello nazionale e internazionale. Ma nell’ambito della dimensione sovranazionale della “politica fiorentina” di La Pira non vi è dubbio che il Mediterraneo occupi un posto decisivo e preminente. Proprio il mare nostrum costituì il fondamento e il riferimento di quattro importanti convegni internazionali, attorno ai quali fu costituito il Congresso mediterraneo della cultura. E al Mediterraneo fanno riferimento storicamente le tre pietre su cui edificare il processo della pace, la pietra profetica, quella metafisica e la pietra giuridica. Ne parlò anche nel 1958 da sindaco di Firenze introducendo proprio il primo Colloquio mediterraneo. La pietra profetica che trova in Abramo il suo punto di orientamento, quella metafisica elaborata dai Greci e dagli Arabi e quella giuridica messa a punto dai Romani. I popoli mediterranei hanno cioè un ruolo fondante grazie alle loro culture permeate dai valori della rivelazione del Dio abramitico.
Questi i punti di riferimento storici, religiosi, culturali e amministrativi che hanno permesso alla civiltà di crescere e hanno costituito per La Pira una convergenza di ideali, valori e aspirazioni confluiti nella proiezione di uno scenario futuro del Mediterraneo e del mondo intero. La visione mediterranea di La Pira va inserita per essere compresa nel più ampio impianto lapiriano della storia umana che abbraccia e unifica visione teologica, vocazione dei popoli, responsabilità dei leader politici e converge verso una teologia della storia che è teologia della pace. Terreni e contesti troppo ampi e tra di loro connessi, ma volendosi limitare al “Lago di Tiberiade” va sottolineato che proprio perché appartengono ad una stessa radice culturale e teologale, i popoli mediterranei invece che allo scontro sono destinati alla pace. Una pace ovviamente i cui valori superano i confini geografici per estendersi a tutto il mondo.
Un concetto ardito soprattutto in quegli anni: in contemporanea con i colloqui fiorentini i popoli della costa meridionale del Mediterraneo lottavano per liberarsi dai vincoli coloniali, lo stato di Israele combatteva per il riconoscimento della propria esistenza, insomma insistevano importanti ristrutturazioni geopolitiche che vedevano nello scontro, anche armato, la strada più breve per raggiungere i propri obiettivi e mal si conciliavano con la dimensione disarmata e non violenta della strategia diplomatica di La Pira. Che proprio per uscire da queste strette ricorse ad almeno due elementi nuovi, i principi della coesistenza pacifica elaborati dalla Conferenza dei Non Allineati a Bandung nel 1955 e il valore delle città che esigono per loro stessa natura una diplomazia non violenta perché non sono titolate del diritto di dichiarare guerra ma dell’opposto diritto di non essere distrutte. Di qui, i Colloqui fiorentini tra sindaci di città appartenenti a stati tra di loro in conflitto, i frequenti viaggi internazionali di speranza e di pace tra parti in guerra, quasi pellegrinaggi in alcuni casi. I colloqui e i viaggi servirono a rompere l’incomunicabilità, a mettere allo stesso tavolo realtà contrapposte, quando farlo sembrava una utopia. Occorreva affiancare e far convivere l’aspetto teologico e culturale dell’incontro con le complesse e conflittuali relazioni esistenti sul terreno e far emergere la necessità di favorire concretamente il dialogo per uscire dalle secche del conflitto. Teoria e pratica insomma convergevano, visione e strategia confluivano su un unico fronte, non bellico.
Un esempio in questo senso venne proprio nel 1956 dalla crisi scoppiata a luglio con la decisione egiziana di nazionalizzare la società che gestiva la navigazione sul Canale di Suez. La Pira riteneva possibile per Roma un ruolo di mediazione tra Egitto e Stati Uniti e sperava che questa mediazione consentisse all’Italia di proporsi come “ponte” tra il mondo arabo e l’Occidente. Furono mesi febbrili di trattative e incontri, poi l’intervento militare franco-inglese sul canale e infine il cessate il fuoco e il ritiro su pressioni statunitensi. Il ruolo italiano in quell’occasione fu importante, “decisivo” secondo la ricostruzione di La Pira. E in effetti il fallimento dell’iniziativa inglese e francese accrebbe l’autorevolezza di Nasser sia sul fronte arabo che tra i Non allineati, rafforzò la linea neoatlantica di Gronchi e Fanfani e sancì in modo definitivo e clamoroso il declino della potenza inglese. Nel marzo 1957 in concomitanza con il definitivo ritiro delle truppe di occupazione sul territorio egiziano La Pira scrisse a Nasser una lettera in cui esprimeva i suoi convincimenti circa la direzione della storia verso la fraternità dei popoli e due anni dopo in una nuova lunga lettera al presidente egiziano ribadiva l’importanza dell’azione di Fanfani per la soluzione della crisi.
Una valutazione forse eccessiva, ma gli studi successivi hanno mostrato che, pur non essendoci all’interno del governo unanimità sulla linea del segretario Dc, la condotta italiana durante la crisi influì sulla presa di distanza di Washington da Francia e Regno Unito e soprattutto aprì orizzonti nuovi nelle relazioni italo-arabe. Nella stessa lettera La Pira ricordava l’intervento di Mattei “da noi invitato a mettersi in relazione con l’Egitto e con Lei per contribuire concretamente alla soluzione di certi problemi industriali ed economici”. Si erano poste le basi per un dialogo che, grazie anche a numerosi viaggi di La Pira in Medio Oriente nel 1957, portò l’anno successivo al primo Colloquio mediterraneo. Era partita quella personale strategia di La Pira volta al Mediterraneo che lo vide impegnato per un più di un ventennio, dagli anni ’50 alla morte. Anche se le favorevoli circostanze registrate in occasione della crisi di Suez non sopravvissero a lungo: nel 1959 Fanfani lasciò l’incarico di segretario Dc e presidente del Consiglio e Mattei morì tragicamente il 27 ottobre 1962.
Gaetano La Pira